I viaggi


Castel Beseno
La più grande struttura fortificata del Trentino-Alto Adige si trova nel territorio del comune di Besenello, in provincia di Trento e oggi è una delle sedi del complesso museale del Museo provinciale del Castello del Buonconsiglio. E' Castel Beseno. Di origine medioevale, l’edificio ebbe una funzione difensiva, evidenziata sia dalla posizione strategica sia dalla massiccia struttura muraria. L'aspetto attuale, simile più a una fortezza di tipo rinascimentale, è dovuto alla presenza di tre possenti bastioni adibiti alla difesa con armi da fuoco e risale alla ristrutturazione realizzata nella prima metà del Cinquecento.

Fin dall'antichità, dalla sommità della collina, si poteva controllare la sottostante Vallagarina e l'accesso alla valle che conduce a Folgaria. Le prime notizie certe che riguardano la fortezza risalgono al XII secolo, allora feudo dei conti di Appiano, abitato da una famiglia di loro vassalli: i Da Beseno. La storia di questo edificio è piuttosto travagliata: intorno al 1200 infatti la chiesa trentina, in parte per acquisti, in parte per donazioni, diventa proprietaria di buona parte della struttura, ciononostante esso rimase sotto il controllo di due rami distinti della famiglia Beseno: quello di Enghelberto e quello di Odolrico. La rivalità tra le due fazioni portò a un decadimento prematuro sia di Castel Beseno che di Castel Pietra, su cui entrambe le famiglie vantavano diritti.

Un secolo più tardi il castello passò sotto il controllo di Guglielmo II, che provviede a restaurarne buona parte e verso la metà del Quattrocento un altro importante personaggio entra nella storia dell'edificio: è Marcabruno II Castelbarco, il quale si trova nel bel mezzo delle diatribe tra le truppe di Venezia e quelle Trentine e Tirolesi; è proprio in questo frangente che si sviluppa la famosa Battaglia di Calliano (combattuta il 10 agosto 1487 tra le truppe della Repubblica di venezia e quelle trentine alleate dei conti del Tirolo), in cui restarono uccisi più di seimila veneti. Fu una gravissima sconfitta per i veneziani e il loro comandante, Roberto Sanseverino d'Aragona, che morì annegato nell'Adige.

Nel Cinquecento, a seguito di un incendio, venne quasi completamente ricostruito e rinnovato, mutando il suo aspetto da castello medievale a quello di residenza rinascimentale, conservando però l'identità di fortezza difensiva ben armata. Le vicissitudini continuarono: alla fine del Settecento fu protagonista di un nuovo, sanguinoso assedio da parte delle truppe napoleoniche che vennero sconfitte dagli austriaci giunte in sua difesa. Da quel momento inizia un lungo periodo di decadenza e il castello verrà infine abbandonato nel corso dell'Ottocento, per essere infine donato nel 1973 alla Provincia Autonoma di Trento, che ne avviò il restauro per farne una delle sedi distaccate del museo del Castello del Buonconsiglio.

La struttura, restaurata nella seconda metà del XX secolo, ha una forma ellittica e copre la sommità della collina calcarea. Oggi il castello è aperto al pubblico e si può passeggiare sull’ampio campo dei tornei, lungo i bastioni, visitare la torre dell’orologio, la casetta della polveriera, il granaio e la residenza dei castellani.

Castel Beseno ospita anche mostre temporanee, eventi enogastronomici come la festa del Moscato Giallo a ottobre e spettacoli e rievocazioni storiche sia in primavera che in estate.


 Ecco il sito dove trovare tutte le informazioni per le vostre visite:




Carpasio, antichissime origini

Carpasio, tipico borgo arroccato in Valle Argentina, è un tipico esempio di architettura montana ligure: le case sono di pietra, i tetti di ciappe grigie e il paese è un susseguirsi di carrugi stretti, impervi. Intorno, la montagna e boschi di antichi castagni. Svetta sul paese il maestoso campanile della Chiesa Parrocchiale di S. Antonino Martire, edificato nel 1404, ormai vistosamente inclinato. Secondo alcune fonti locali la sua origine dovrebbe risalire all'Età del ferro come luogo di rifugio dei primi insediamenti umani. In epoca preormana si sono trovate tracce di una postazione difensiva, quello che viene chiamato castellaro e che i locali chiamano Rocca Castè. 

S. Antonino
La zona fu dominata dai Longobardi dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente e fu il re Ariperto II a cedere la parte del territorio della valle di Oneglia che comprendeva anche Carpasio al pontefice Giovanni VII nel 706. Nel XI secolo, un altro papa, Urbano II, assegnò il territorio alla diocesi di Albenga. Il borgo, alla fine del XI secolo, venne compreso nella cosidetta Marca Aleramica (gli Aleramici erano un'importante famiglia feudale di origine franca, i cui diversi rami si stabilirono in Italia e governarono molte terre tra la Liguria occidentale e il Basso Piemonte), fino alla dominazione dei conti di Ventimiglia, che assoggettarono tutta la valle. La prima citazione ufficiale del borgo di Carpasio risale a uno scritto del 1153, con il quale il vescovo Odoardo concesse al signore del feudo di Lingueglietta, oggi frazione comunale del comune di Cipressa, il diritto di riscuotere le decime.

I Carruggi
In un documento risalente al 4 ottobre del 1234, un terzo del territorio di Carpasio fu venduto dal conte Oberto (conte di Ventimiglia e signore di Badalucco, altro borgo di origine medievale della valle) a tre cittadini del luogo e il 24 novembre del 1259 fu il marchese di Ceva, un certo Pagano, genero di Oberto, a cedere il feudo al Comune di Genova, rinunciando ai propri diritti feudali. Il 28 settembre 1399 il territorio carpasino fu ulteriormente diviso tra diversi signori locali, ma legati ai conti intemeli.

Nel mese di luglio del 1433 furono stilati i cosiddetti Statuti di Carpasio, ove si stabiliva l'indipendenza politica e fiscale di Carpasio ma una ventina di anni dopo, il conte Garspardo di Ventimiglia, vendette i diritti feudali del paese a Onorato Lascaris di Ventimiglia, conte e signore di Tenda. La cessione, avvenuta per la somma di 8.600 lire genovesi, causò non pochi contrasti e incomprensioni tra gli altri pretendenti al feudo. Le continue controversie consentirono infine la sua conquista da parte di Emanuele Filiberto I di Savoia, che divenne l'unico signore del Maro e della contea di Tenda a partire dal 12 luglio 1575.

Gio Girolamo Doria lo elesse a sede di marchesato nel 1590 mentre nel 1620 il borgo entrò a far parte del principato omonimo dipendente dai Savoia. Ovviamente fece parte del Regno di Sardegna e quindi anche la municipalità di Carpasio confluì tra il 1801 e il 1803 nella Repubblica Ligure. 

L’isolamento e l’ambiente alpino hanno contribuito a conservare sul territorio di Carpasio le tracce di un’antica cultura pastorale. Cosa si può fare nel piccolo borgo ligure? Una bellissima passeggiata che, dalla Piazza "Nuova" e attraverso secolari castagneti, porta fino in località "Trunette". Qui il torrente ha scavato un profondo orrido lungo circa centocinquanta metri. Le sue acque trasparenti assumono un colore irreale, dovuto ai raggi solari filtrati dalla spessa e rara vegetazione spontanea. Uno spettacolo unico nel suo genere.

Da vedere anche l’antico Forno Comunale, il più grande della Valle Argentina, utilizzato per la cottura del pane, enorme visto che conteneva fino a un migliaio di pani in un’unica infornata e il Museo della Lavanda, che racconta la storia del paese e dei suo abitanti. Questa pianta rappresentò per anni la sola e più redditizia fonte di reddito, tanto che i carpasini non si limitarono a raccogliere quella spontanea, ma cominciarono a coltivarla. Un gruppo di essi, nel 1906, si riunì in una cooperativa di coltivatori, raccoglitori e distillatori per la commercializzazione dell’essenza.

Oggi si possono acquistare diversi prodotti tipici della zona, a parte la lavanda: il pane d’orzo, miele, formaggi, olio e vino.


Ecco il link del Comune di Carpasio:

Comune di Carpasio


 



Il castello Pentefur 

Il castello si trova su uno dei due colli su cui sorge l'antica cittadina di Savoca. Siamo in provincia di Messina, nella nostra bella Sicilia. Savoca fu fondata, pare, nel 1134 da Ruggero II e si sviluppò proprio intorno all’antica Rocca di Pentefur. L’antico abitato cominciò a svilupparsi dopo la caduta dell'Impero Romano quando, durante il periodo bizantino, si trasformò in villaggio fortificato. Passò sotto il dominio arabo nell’827, fino all’arrivo dei normanni nel 1072. Gli Arabi la chiamavano Kalat Zabut (Rocca del sambuco) e ricostruirono l'antico fortilizio. Oggi ciò che rimane sono pochi ruderi, sopra alla collina che porta lo stesso nome e che domina il paesaggio: qualche tratto delle mura merlate, alcuni resti di una torre trapezoidale e antiche cisterne per la raccolta dell’acqua. 



Antico portale
Probabilmente deriva da un antico castra romano, un accampamento militare e secondo una leggenda, venne edificato da una banda di cinque ladri o predoni che infestavano la zona, dal loro numero deriverebbe il suffisso “penta”, cinque.  I Normanni lo trasformarono nella residenza estiva dell’Archimandrita di Messina: fu Ruggero II d'Altavilla che, nel 1139, creò la Baronia, detta "Universitas Sabucae" o "Terra di Savoca", un’area estesa che comprendeva ben quarantotto feudi. Sempre in epoca normanna il Castello fu utilizzato come residenza estiva del potente Archimandrita di Messina, signore feudale della Baronia, che vi risiedeva con tutta la sua corte.  Il fatto che il castello si ergesse su una collina lo rendeva per la corte un posto sicuro e più gradevole anche dal punto di vista climatico. 

Ruggero II D'Altavilla
Nel 1355 venne proclamato Castello Regio e fu al centro di un susseguirsi di vicende oscure e tumultuose che, alla fine, lo videro assegnato a Guglielmo Rosso Conte d'Aidone. Fu Federico IV medesimo ad imporre ai Giurati, ai Sindaci savocesi e all'Archimandrita di Savoca Teodoro di giurare fedeltà al nuovo Capitano del Castello e nel 1356 vi trova rifugio il fratello del conte, Arrigo Rosso, scampato all'eccidio di Messina. 


Soltanto nel 1386 il castello ritornerà definitivamente in possesso degli Archimandriti. Dal castello partivano ordini per tutti i fortini e le torri di vedetta disseminate sul litorale siciliano, a difesa di quelle incuriosi frequenti e devastanti dei pirati barbareschi che infestavano il Mediterraneo. All'inizio del XX secolo, le torri rimaste erano sei, oggi in perfetto stato solo tre. Cinque sorgevano sull'attuale territorio di Santa Teresa di Riva, l'antica Marina di Savoca e sono: torre Varata, torre dei Saraceni, torre dei Bagghi e torre Avarna. La sesta venne eretta a Roccalumera, ed era chiamata torre di zia Paola, o torre Ficara.

Nel 1693 subì gravi danni a causa di un violento terremoto, quindi la corte Archimandritale, da allora, preferì risiedere a Messina. Nell’ultimo ventennio del XVII secolo, esso venne abbandonato e cominciò la lunga agonia del fortilizio: per decenni gli abitanti di Savoca lo utilizzarono come una cava a cielo aperto, smontandolo pietra dopo pietra per edificare le case della cittadina.

Antiche cronache raccontano che, oltre alla costruzione fuori terra, il castello avrebbe nel sottosuolo passaggi segreti e cunicoli che avrebbero permesso ai suoi abitanti una fuga sicura. Forse si potrebbero trovare anche testimonianze archeologiche per fare luce sulle sue origini. Da alcuni anni sono stati intrapresi lavori per assicurare l'accesso e la fruizione pubblica guidata del sito, a cura della famiglia Nicòtina che ne è proprietaria dal 1885.

 

 

 

 

Castagneto Carducci

 

Grazioso comune toscano della Costa Etrusca, immerso nel cuore della Maremma Livornese, su una collina che domina mare e terreni agricoli, ricco di storia, di natura, di artigianato, di suggestivi angoli pittoreschi fra vicoli lastricati, piazze e terrazze che sembrano uscire dalla tela di un pittore.
Questo borgo medievale sviluppato intorno al Castello della Gherardesca, in origine si chiamava Castagneto (ovvero bosco di castagni) Marittimo, per la sua vicinanza al mare.
Fu ribattezzato Castagneto Carducci nel 1907 in onore del Poeta, Giosuè, che visse qui alcuni anni della sua infanzia.

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar.
Mi riconobbero, e— Ben torni omai —
Bisbigliaron vèr' me co 'l capo chino —
Perché non scendi ? Perché non ristai ?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh non facean già male!


(Davanti a San Guido - Giosuè Carducci)



Presso il Comune di Castagneto, nel Palazzo Pretorio ha sede il Museo Giosuè Carducci e nel palazzo dove abitò è possibile visitare il Centro Casa Carducci dove sono state conservate testimonianze e il mobilio dell’epoca. Preziose le chiese di San Lorenzo e del SS. Crocifisso.
Numerose le manifestazioni che scelgono come cornice le bellezze di Castagneto: le rassegne enogastronomiche “Castagneto a Tavola” e “Calici di Stelle”, il “Festival internazionale della musica” o il “Gran Premio Costa degli Etruschi” di ciclismo professionistico a livello mondiale.
Le botteghe del borgo offrono prodotti tipici, olio e ottima cucina locale! Da non perdere!
 Nelle vicinanze la Riserva Faunistica della bella Bolgheri, con i “cipressetti” declamati dal Poeta.
A metà strada tra il borgo e Castagneto Marina, si trova Donoratico, vivace località marittima che offre spiagge e servizi, nota per la costruzione di imbarcazioni da competizione e da diporto.
Buon divertimento!


Dolceacqua, un castello millenario
Nell’entroterra ligure si nascondono paesi di antica origine, annidati nelle valli scavate dai torrenti o abbarbicati sulle colline di questa regione italiana aspra e stretta, che ricordiamo soprattutto per il verde argentato degli ulivi e l’azzurro del mare. I versi del poeta Vincenzo Cardarelli la descrivono con indimenticabile poesia i suoi contrasti e i suoi colori. Dolceacqua è un tipico borgo medievale della Val Nervia, il torrente che dà il nome alla valle. La parte più antica del borgo è costruita alle pendici del monte Rebuffao, dominata dalle rovine ancora imponenti del castello dei Doria. Sulla riva opposta è invece stato edificato il paese più recente. Per raggiungere Dolceacqua si percorre la SS 64, che si inerpica lungo la vallata. 
II toponimo Dolceacqua deriva quasi certamente da un insediamento di epoca romana, chiamato Dulcius, ma non è esclusa la provenienza celtica del nome Dussaga, modificato poi in Dulsàga e infine in Dolceacqua. Interessanti testimonianze archeologiche della zona sono i castellari dell'età del ferro, rozze fortificazioni in pietra a secco. Studi recenti hanno confermato che essi venivano edificate dai Liguri Intemeli fin dal IV secolo a.C., senza interruzioni, fino al IV secolo durante il tardo impero romano a protezione dei villaggi, dei pascoli e dei campi.

Le prime testimonianze scritte del suggestivo castello, simbolo di questo piccolo paese dell’entroterra ligure, risalgono al 1117. In esso vengono citati come proprietari di Conti di Ventimiglia. Il castello subì diverse trasformazioni lungo i secoli: il primitivo impianto feudale, difeso alla fine del 1200 dalla torre circolare, venne ingrandito ed incluso nel XIV secolo in una cinta muraria più ampia. Nel 1270 il feudo e il castello vengono acquistati da Oberto D’Oria, fondatore della celebre dinastia e antenato del più famoso Principe Andrea D’Oria (che dominerà, con la sua figura leggendaria, la Repubblica di Genova durante il Siglo de Oro, il secolo d’oro della Spagna, che va dai primi del 1500 fino alla fine del 1600). Oberto amplierà i territori della famiglia fin nell’alta Val Nervia.

Nel XIV secolo il castello sarà al centro di aspre lotte tra fazioni guelfe e  ghibelline: la famiglia Doria ghibellina e quindi alleata all’imperatore, subirà due lunghi assedi: uno nel 1319 e l’altro nel 1329, orchestrati dal guelfo Roberto d'Angiò, Conte di Provenza, che conquistò i territori della Valle sconfiggendo la famiglia D’Oria. Essi diventeranno i suoi vassalli e, in seguito, il territorio passerà nelle mani della Repubblica di Genova.
 
Durante l'aspro conflitto tra le fazioni guelfe e ghibelline e la rivalità fra la famiglia Doria e i Grimaldi di Monaco, agli inizi del 1500, Dolceacqua si mise sotto la protezione della casata Savoia (che la eresse in marchesato nel 1652). Nel 1526 Bartolomeo Doria cedette al duca Carlo III di Savoia i propri diritti feudali su Dolceacqua, diventando vassallo del duca. Quest’ultimo assicurerà la protezione al feudo, anche grazie a nuovi accordi tra Stefano Doria ed Emanuele Filiberto I di Savoia. Alla fine dell'età rinascimentale il castello diventerà una grandiosa residenza signorile fortificata, con imponenti apparati difensivi.
 
Agli inizi del XVII secolo i rapporti tra le due famiglie iniziarono a incrinarsi. Nel 1625 infatti, i Doria si schierarono con la repubblica genovese nella guerra contro il ducato sabaudo. Nel 1744 il castello fu nuovamente teatro di scontri e furiose battaglie per la sua posizione strategica, ritenuta essenziale dall'esercito francese e spagnolo nella guerra di successione austriaca: lo conquisteranno il 27 luglio del 1745.  

Nel 1815 il territorio fu annesso al Regno di Sardegna e nel 1861 al Regno d'Italia. Non più abitato dalla famiglia dei marchesi Doria, che si trasferì nel cinquecentesco palazzo adiacente la chiesa parrocchiale, il castello subirà gli ultimi oltraggi contro la sua imponente mole dal terremoto del 1887. Dal 1942 il castello è proprietà del Comune di Dolceacqua.

Rocca Calascio

La regione Abruzzo possiede un vasto patrimonio di castelli, le sue valli e le sue montagne sono spesso costellate di fortilizi, torri e rocche che lasciano una forte impressione sul visitatore, con il suggestivo sfondo del  selvaggio panorama abruzzese. Un connubio storico-naturalistico che ci riporta indietro nel tempo e il posto d'onore spetta a Rocca Calascio, situata in provincia dell'Aquila nel territorio del comune di Calascio, all'interno del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Essa si trova a un'altitudine di 1.460 metri ed è una delle rocche più elevate d'Italia, insieme all'antico borgo situato alle sue pendici, fino a qualche anno fa disabitato e oggi ristrutturato con la creazione di un rifugio-hotel.

La Rocca si fonde con l'impervio territorio roccioso che la circonda, costruita in candida pietra calcarea in cima a una cresta che domina la valle del Tirino e della piana di Navelli. Da lassù, si può godere uno spettacolare panorama su Campo Imperatore e sul Gran Sasso. 

La sua fondazione risale intorno all'anno 1000 (l’originale maschio oggi capitozzato forse era già di origine romana), anche se il primo documento storico che ne attesta la presenza è datato 1380. La struttura originaria era costituita da un torrione isolato di forma quadrata, il cui ruolo principale era quello di essere torre di avvistamento per controllare il più importante percorso tratturale aquilano, che passava sotto le sue mura. Alla rocca si accedeva mediante un ingresso posto sul lato est, a circa cinque metri di altezza, raggiungibile con una scala di legno che veniva poggiata su due mensole in pietra, tuttora visibili al di sotto della soglia di ingresso. Il fortilizio comunicava con i castelli e le rocche situate fino alla costa adriatica, grazie all'ausilio di torce accese durante la notte o di specchi durante le ore diurne.

Nel XIV secolo divenne possedimento di Leonello Acclozamora, della baronia di Carapelle. Verso la fine del XV secolo fu concessa da re Ferdinando ad Antonio Todeschini, della famiglia Piccolomini. Egli rafforzò la fortificazione dotandola di una cerchia muraria e quattro torri. In questo periodo Rocca Calascio vide crescere la propria importanza e il proprio peso economico e alle sue pendici si sviluppò ben presto un piccolo borgo cinto da mura.

Nel 1579 la famiglia fiorentina dei Medici acquistò la Rocca e il vicino borgo di Santo Stefano di Sessanio, per estendere i propri possedimenti e ampliare il commercio della lana

Nel 1703 un disastroso terremoto danneggiò sia la Rocca che il borgo. Restauri conservativi ed integrativi sono stati compiuti tra il 1986 ed il 1989, contrastando il degrado strutturale e favorendo il recupero architettonico e funzionale dell'intero fabbricato, soprattutto della torre centrale quadrata. Gli interventi permettono oggi di visitare l’area.

Michelle Pfeiffer 
sul set di Rocca Calascio
Rocca Calascio è anche famosa per essere un set cinematrografico d’eccellenza. Ha ospitato, in più occasioni, grandi set cinematografici tra cui i film: "Lady Hawke", "Il Viaggio della Sposa", "Padre Pio", "Il Nome della Rosa", "L'orizzonte degli eventi". Proprio grazie al denaro ricavato dalle riprese cinematografiche fu realizzato parte del restauro.
Per chi volesse fare un piacevole week-end o un soggiorno più lungo, potete scoprire il Rifugio della Rocca. Ecco il link:




Erice, smeraldo sul mediterraneo

Oggi vi porto nella nostra bellissima Sicilia, in provincia di Trapani. Siamo a Erice, abbarbicata su un monte con il mare e il cielo che le fanno da splendida cornice.

Da lassù ecco si vede la bella Trapani e gli sparsi gioielli delle Egadi, Castellammare del Golfo e il monte Cofano. Secondo Tucidide (storico e militare ateniese) la città fu fondata dagli esuli troiani che, fuggendo via mare da Troia distrutta, avrebbero trovato rifugio sulle alture della costa siciliana. Una volta sbarcati si unirono alla popolazione autoctona, fondando il popolo degli Elimi. Per la sua posizione strategica Erice fu sempre contesa sino alla conquista da parte dei Romani nel 244 a.C. Oggi il borgo ha mantenuto quasi intatto il suo aspetto medievale e, percorrendo le sue strade acciottolare e in salita, si ha la sensazione di immergersi nel passato.

Eryx per greci e per i romani, fu sempre legata al culto della dea Venere. In posizione dominante sorgeva un tempio dedicato dai Fenici ad Astarte, poi divenuto santuario di Afrodite. Secondo Diodoro Siculo era il luogo dove Erice, uno degli argonauti partiti alla conquista del vello d’oro insieme a Giasone, aveva eretto un tempio dedicato alla propria madre Venere e fondato la città.
Nel corso dei millenni, il culto della Venere Ericina a cui i marinai di passaggio erano devoti, grazie anche alle bellissime prostitute sacre alla dea, le ierodule, crebbe insieme alla sua fama e alla sua ricchezza. Protetta efficacemente la città accese sempre l'interesse dei popoli del Mediterraneo. Tra questi i Romani che, sconfitti i Cartaginesi, si appropriarono del luogo e del culto di Venere, ricostruendo il tempio sulle rovine lasciate dalla guerra e riportando Erice agli antichi splendori. A Roma venne eretto un piccolo tempio sul colle Capitolino e poi, nel 181 a.C., ne sorse uno più grande, presso Porta Collina, entrambi dedicati alla dea Ericina.

Fu posta inoltre, a protezione del thémenos ericino, una guarnigione di legionari e le città più fedeli della Sicilia dovevano sostenerne economicamente il culto. Virgilio, nell’Eneide, scrive che Enea si fermò in questi luoghi per seppellire vicino al santuario il padre Anchise, prima di veleggiare per il Lazio dove avrebbe fondato Roma. Il mito legò i destini degli elimi con i romani, entrambi discendenti di Venere, madre di Enea e di Erice.

Dopo il periodo romano di massimo splendore la città fu dominio dei bizantini, poi dei saraceni che le mutarono il nome in Gebel al Hamid, la collina di Hamid e poi ancora i normanni. Ruggero d'Altavilla battezzò il borgo e il territorio Monte San Giuliano, in onore del Santo, intervenuto a cavallo con una muta di cani per dar man forte ai soldati cristiani contro i musulmani. Questi ultimi abbandonarono la rocca con grande rimpianto ma sembra rimpiangessero ancora di più le donne di Venere: che Allah il misericordioso le faccia schiave dei Musulmani scrisse nel 1185 Ibn Giubayr.

Sui resti dell'antico santuario i Normanni edificarono il loro castello, fulcro di un sistema difensivo che comprendeva le torri del Balio, da bajulo, così com’era chiamato il magistrato che rappresentava il re e risiedeva con la corte nel castello. Esso, costruito sulla rupe del thémenos nel XII secolo, era collegato al piano più basso delle torri da un ponte levatoio, poi sostituito dalla gradinata che, ancor oggi, si percorre per raggiungerlo. Al suo interno sono stati rinvenuti e, purtroppo, perduti, sia elementi architettonici databili alla ricostruzione medievale della fortezza, sia frammenti del tempio in epoca romana. Dopo il periodo normanno delle antiche torri restarono soltanto ruderi e la spianata, su cui i cartaginesi avevano eretto le prime fortificazioni.

Alla fine del XIX sec., il conte Agostino Pepoli concluse con l'amministrazione della città un accordo, secondo il quale avrebbe bonificato a proprie spese l'intera area e ricostruito le torri, che sarebbero rimaste di sua proprietà. Grazie all'intervento del colto mecenate venne restaurata la torre pentagonale, distrutta nel XV secolo, e la cortina merlata a protezione dell'area interna, e venne realizzato il giardino pubblico all'inglese detto del Balio. Quest'ultimo, insieme alla torretta che Pepoli fece costruire sul versante di nord-ovest della rupe del castello, è oggi uno dei simboli della città di Erice.

Sito del comune di Erice 

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